LE SCULTURE CLASSICHE CI “PARLANO” DI BELLEZZA

LE SCULTURE CLASSICHE CI “PARLANO” DI BELLEZZA

“Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace” è un proverbio che tutti conoscono. Il messaggio che porta, in apparenza ovvio, è che la bellezza è relativa: una cosa o una persona sono più o meno belle, più o meno affascinanti, a seconda di chi le sta giudicando (ed in effetti lo stesso senso in inglese si traduce con beauty is in the eye of the beholder, “la bellezza è negli occhi di chi guarda”).

In realtà, l’affermazione non è affatto banale. Ammettere che la bellezza non sia inquadrabile entro schemi definiti significa riconoscere l’importanza e l’effetto che i nostri filtri, sociali, culturali, geografici e personali, hanno su di noi e sul modo attraverso cui interpretiamo il mondo. Tale posizione di relativismo spiega come differenti culture, epoche e mentalità abbiano continuamente modellato e modificato gusti, mode, idee sul bello e sul suo contrario.

La civiltà classica non fa eccezione. L’ideale estetico nel mondo greco-romano assunse connotati diversi a seconda del periodo storico, del luogo e del campo di indagine. Nell’antica Grecia, almeno fino al V secolo a.C., il concetto non era stato ancora realmente teorizzato: il bello, infatti, era sempre appaiato ad altre qualità, quali la misura e la convenienza. A partire dalla fine del V secolo, specificamente nell’arte sculturorea, la bellezza si manifestava nell’appropriata armonia e nella proporzione tra le parti, sulla base delle teorie pitagoriche, che vedevano nel numero l’origine di ogni cosa. La figura umana era una costruzione ideale, pensata, intellettuale.

La questione cambiò nuovamente nel secolo successivo, grazie soprattutto al contributo dell’ateniese Prassitele, uno dei massimi maestri dell’arte greca. Attivo nella metà del IV secolo a.C., era già stimato ed apprezzato tra i contemporanei. I suoi lavori furono replicati nei secoli in numerosissime copie e varianti. Conosciuto come lo scultore della “grazia”, era solito umanizzare tipi divini, dai corpi giovani, attraenti e sinuosi.  Tra le altre cose, è noto per aver concepito e realizzato la prima immagine di una divinità in completa nudità, la cosiddetta Afrodite cnidia, la sua opera forse più celebrata.

Il marmo ritraeva Afrodite, la dea dell’amore, bellezza e (ri)generazione, prima o dopo un bagno, nell’atto di afferrare o deporre un mantello: con la mano destra, in maniera naturale, copre parzialmente le parti intime, per ripararsi da sguardi indiscreti. Si tratta di un atteggiamento intimo e sensuale, un modo nuovo di ritrarre una dea, lontano dalla solennità che caratterizzava i suoi predecessori.

L’immagine non passò inosservata. Le fonti antiche narrano di come gli abitanti dell’isola greca di Coo, cui la scultura fu presentata, insieme ad una versione vestita, optarono per la seconda, più conforme ai dettami di stile e decoro del tempo. Venduta quindi agli abitanti di Cnido (e quindi cnidia), nell’attuale Turchia, e posta all’interno di un tempio, la fama dell’Afrodite nuda crebbe a dismisura: tantissimi si recavano in città per vederla, e pare addirittura che un giovane, soggiogato dalla sua bellezza ammaliatrice, se ne innamorò. Trasportata a Costantinopoli, andò distrutta in un incendio nel 475 d.C.

Nonostante l’originale sia perduto, il suo ricordo rivive nelle numerose repliche a lei ispirate, tra le quali una delle più apprezzate è la cosiddetta Venere de Medici. Considerata uno dei capolavori dell’arte antica, questo marmo, rinvenuto a Roma nel ‘500, si trova, dalla fine del ‘600, nella Tribuna degli Uffizi, a Firenze.

Ai fini del nostro discorso è interessante notare come anche questa Venere ci “parli”, fornendo preziose indicazioni sul senso estetico classico. Per esempio, analisi scientifiche hanno evidenziato tracce dell’antica cromia, dei materiali usati per colorarla: lamine d’oro applicate sulla capigliatura, cinabro (un minerale dal colore rosso acceso) sulle labbra e blu egiziano sulla base. La scoperta testimonia, ancora una volta, il valore della policromia nella scultura greca e romana, fatto assodato tra gli specialisti, ma non scontato per il grande pubblico.

Il mondo classico era caratterizzato da tinte vibranti ed accese, che risultano quasi “scioccanti” ai nostri occhi. Il colore bianco, con cui siamo abituati a vedere i marmi, dipende sia dall’azione del tempo (i pigmenti che coloravano le statue naturalmente sbiadiscono), che da atti deliberati, di esperti, archeologi e storici dell’arte, che imposero un preciso canone estetico, arbitrario, il quale faceva coincidere le qualità di purezza e perfezione della statuaria antica con il loro supposto candore. Ancora, i lobi forati della Venere lasciano supporre la decorazione degli stessi con orecchini. I monili potevano essere sia applicati che dipinti.

Attraverso il trucco suggerito dall’uso del colore e gli accessori, la dea sembra condividere degli atteggiamenti contemporanei. Forse non è un caso che quindi la Venere compaia, insieme all’attrice Scarlett Johansson, nella campagna pubblicitaria, datata 2013, di un fondotinta liquido di una famosissima casa di moda italiana? Come a suggerire che la bellezza non sia così inaccessibile? E che ogni donna, col giusto trucco, possa sentirsi al pari di una dea? Stando a quanto detto, la risposta sembrerebbe sia affermativa, che negativa: chi decide, in fondo, ciò che è bello se non noi? E se quel fondotinta ci fa sentire meglio, perché non comprarlo? Il prodotto è ancora disponibile in commercio, dopo quasi dieci anni.

Chiara Marabelli

Dottoranda presso la School of Museum Studies dell’Università di Leicester (Regno Unito). Archeologa e museologa, ha collaborato negli anni con musei ed istituzioni culturali in Italia ed all’estero.