IL BELLO COME CATEGORIA CULTURALE

Il bello da sempre rappresenta una delle categorie fondanti della civiltà occidentale.

Già Omero ed Esiodo qualificano la bellezza come “splendore” e  “luminosità”, mentre per Pitagora essa è legata ai concetti di “proporzione”, “simmetria” e “armonia” delle parti. Inoltre, grazie ad Afrodite, la bellezza viene anche assimilata alla capacità di ammaliare, di generare una sorta di forza persuasiva che incanta l’osservatore. Per Platone, a sua volta, il bello è l’idea da cui muovere allo scopo di cogliere intuitivamente il bene come principio ultimo del reale. 

Come si evince facilmente da questi brevi cenni di carattere storico-filosofico, il bello conserva ancora i suoi attributi originari elaborati dalla filosofia e dalla cultura greca, specificamente declinati all’interno del contesto tecnologico contemporaneo.

Qui splendore, armonia e incanto si saldano perfettamente e determinano socialmente la bellezza come ciò che manifesta l’equilibrio tra le parti di un qualsiasi oggetto reale, la sua capacità di risplendere e costituirsi come una forza attrattiva da cui si viene facilmente soggiogati.

Ciò che viene giudicato bello, diventa di conseguenza anche un modello da seguire e una fonte di ispirazione di carattere esistenziale. Tuttavia, rispetto alla mentalità classica, la bellezza acquisisce con la cultura moderna una dimensione soggettiva legata al gusto personale, alla predisposizione individuale e alla ricerca della felicità e del benessere materiale. 

Ciò nonostante, proprio recuperando l’idea arcaica di splendore e luminosità, la cultura mediatica odierna, teatralizza il bello in senso oggettivo e universale. Non, tuttavia, come qualcosa di immutabile ed eterno, ma come l’attributo che conferisce un senso sociale alla bellezza.

Essa, infatti, per essere collettivamente condivisa e costituire un canone di riferimento comune, per quanto momentaneo e transeunte in obbedienza alla moda del momento, deve sempre “illuminare” il teatro mediatico, imporsi al gusto collettivo, ispirare gesti, pose e atti significativi, in modo che il suo abbagliante splendore possa tradursi in una forza persuasiva che induce precisi comportamenti sociali.

Il bello, in questo senso, si contrappone nettamente al brutto inteso come “oscuro”, “repellente”, “non desiderabile” come ciò che ha implicitamente fatto il suo tempo e risulta privo di forza persuasiva. Non a caso, risulta sempre molto efficace, quando è necessario contrastare qualsiasi comportamento giudicato dannoso o erroneo, mostrarne gli autori come esseri oscuri, sinistri, deformi e privi di attrattiva. 

La bellezza, inoltre, tende a esprimersi anche come potenza tecnologica poiché la civiltà delle macchine produce forme estetiche mutevoli, proteiformi, profondamente instabili. Esse hanno sete di maquillagedi una cosmesi quotidiana in grado di interpretare correttamente il corretto canone dello splendore e della rappresentazione più coerente con i modelli di riferimento veicolati dai media, investendo ogni oggetto e ogni individuo che, più o meno consapevolmente, vi adatta il proprio modo di apparire.

In questo senso la bellezza, intesa come ciò che deve sempre risplendere e illuminare il mondo che la circonda, si mostra sempre e comunque come un dispositivo culturale orientato, al pari della civiltà tecnologica di cui è il prodotto, al consumo costante di energia e di risorse materiali, poiché ogni oggetto e ogni corpo richiedono una continua ridefinizione, uno sforzo quotidiano di messa a punto in funzione dei modelli mediatici di riferimento.

Senza tale impegno quotidiano di cosmesi attiva, di tipo corporeo e psichico, ogni gesto, ogni atto significativo, così come la semplice presenza fisica, risulterebbero privi di interesse, quando non decisamente ripugnanti. 

La disponibilità di beni e risorse di ogni genere, a loro volta, come la virtualizzazione del reale ad opera delle nuove tecnologie, portano inevitabilmente notevoli mutamenti nella concezione della bellezza.

Essa, quindi, riprendendo l’antico ideale omerico dello splendore, lo adatta alla nuova sensibilità mediatica e soggettiva, spingendolo in un orizzonte di quotidiano maquillage personale affinché esso si possa costantemente adattare alle sollecitazioni mediatiche e sociali. Il prezzo della mancanza di adeguamento a tale nuova condizione culturale è connesso con l’emarginazione e l’irrilevanza di tutti coloro i quali non intendono prendersi cura di se stessi, in funzione delle nuove dinamiche estetiche e culturali. 

Paolo Bellini è professore di Filosofia Politica presso l’Università degli Studi dell’Insubria, dove è Direttore Scientifico del Centro Speciale di Scienza e Simbolica dei Beni Culturali. Il Prof. Bellini ha all’attivo oltre 90 pubblicazioni su temi trasversali dell’indagine filosofica.