LA FUNZIONE SOCIALE DELLA BELLEZZA

Ad un anno e qualche mese dallo scoppio della pandemia da coronavirus potrebbe apparire velleitario occuparsi di bellezza, che sia la bellezza che ritroviamo nelle opere d’arte, nei beni naturali, nelle arti, nella moda e in tutto ciò che ci circonda, essa ha certamente un ruolo centrale nelle nostre vite. Nelle società occidentali si assiste ad una polarizzazione ideologica legata alla neutralità, la political correctness che permea l’agone pubblico e tende ad appiattire il dibattito, anche culturale, attorno a questi temi. Sono fatti noti gli eventi ascrivibili alla c.d. cancel culture che mira a distruggere i baluardi di una ideologia passata, laddove questa non sia più socialmente accettabile, tramite l’eliminazione di ogni traccia di quel momento storico e, quindi, cancellando anche opere d’arte, monumenti e, più in generale ogni riferimento che possa celare un legame tra la società contemporanea e quella passata. 

Inoltre, esautorare la dialettica dalla possibilità di definire la realtà contingente secondo le categorie con cui siamo abituati a ragionare può mettere in seria crisi anche il sistema democratico. Mi spiego meglio: un conto è l’offesa, la calunnia, l’ingiuria, tutte fattispecie disciplinate dal nostro ordinamento come reati; altra cosa è privare la dialettica delle proprie categorie: il bello e il brutto, il bene e il male, ciò che è giusto da ciò che è errato. Se l’uomo intelligente (forse non mi è consentito utilizzare il termine intelligente poiché nella costruzione del pensiero per contrari tra qualche lettore si sta già materializzando il suo opposto, cioè lo stupido, aggettivo scomodo per la political fairness) è, senza ombra di dubbio scettico (mi sono già categorizzato assolutizzando la necessità di scettiscismo), dobbiamo comunque avere ben chiari quali siano i limiti del pensiero, i binari della tradizione. Se dubitiamo di tutto sarà come credere a tutto. La società così è paralizzata, la paura ha il sopravvento, tutto diventa cupo e brutto. Sì, brutto. 

Durante questi mesi segnati dalla pandemia, forse più che mai, abbiamo sentito la necessità di ricorrere al bello per ristorare, seppur per un attimo, l’animo. Vediamo come a Bergamo, una delle città più colpite dal virus, in diversi padiglioni delle strutture sanitarie siano state affisse delle riproduzioni di opere conservate presso il Museo Accademia Carrara: “Anche questa è una terapia“, come ha sottolineato un medico in servizio presso la terapia intensiva di quelle strutture, a conferma che il benessere e addirittura la salute delle persone dipendono anche dalla “dose” di bellezza di cui ciascuno dispone. Il particolare momento storico ha certamente influito ad accelerare l’iter di approvazione, avvenuto il 23 settembre 2020, dopo un lungo e accidentato percorso – della “Convenzione quadro del Consiglio d’Europa sul valore del patrimonio culturale per la società”. L’approvazione da parte del nostro Parlamento è, certamente, un momento importante per la nostra Nazione, sia per quello che fin qui è avvenuto e soprattutto per quanto si dovrà fare in futuro. Ciò non si limita alla doverosa armonia da assicurare tra Convenzione e il vigente ordinamento italiano in materia di patrimonio culturale ma richiede, da parte di tutti gli attori in gioco, una attenta riflessione su impostazioni, concetti e modalità di azione. Questa riflessione è tanto complessa e approfondita quanto lo è nel nostro Paese la tradizione e l’esperienza in ambito di beni culturali, patrimonio artistico, bellezze naturali e, più in generale, di arte. Il termine “bellezza” nel nostro Ordinamento è presente da più di un secolo, questo serve a sottolineare come il Legislatore italiano, forse in modo inconscio essendo abituato a vivere in uno dei Paesi al mondo con la più alta concentrazione di beni artistici e naturali, abbia sempre avuto una particolare attenzione a questo aspetto. Ponendo come limite di indagine l’Unità di Italia (andando a ritroso troviamo editti e leggi che parlano di bellezza nello stato Pontificio del XV sec.) vediamo che con la legge Nasi del 1902, destinata alla tutela della pineta di Ravenna, si abbozza nel nostro Ordinamento l’importanza della bellezza. 

In seguito, con la legge Rosadi, più volte modificata nei decenni successivi alla sua entrata in vigore, specie in relazione all’ambito oggettivo di applicazione – prima esteso alle ville, ai parchi e ai giardini di interesse storico e artistico, poi anche alle cose di interesse paleontologico (leggi nn. 668 del 1912 e 1240 del 1928) –, segue – preannunciato da massicci interventi di riorganizzazione amministrativa (leggi nn. 289 del 1939, di conversione del r.d.l. n. 1673 del 1938, e 823 del 1939) – un altro intervento organico: la legge n. 1089 del 1939. Quest’ultima, congiuntamente alla legge n. 1497 dello stesso anno, avente ad oggetto le bellezze naturali, compone l’armamentario di tutela del “bello”, sia esso artificiale o naturale – un dittico, questo, più volte sottolineato nell’evoluzione legislativa italiana, concettualizzazione voluta dall’allora Ministro dell’Educazione nazionale Giuseppe Bottai. 

Considerazione necessaria è quella riferibile alla distinzione tra bellezza in senso soggettivo, dipendente dall’insindacabile gusto di ciascuno, e bellezza oggettiva, definibile come un insieme di qualità rispondenti a dei canoni (simmetria, armonia, eterocromia, contrasto, etc.), anch’essi peraltro, a ben vedere, non assoluti ma mutabili, a seconda del periodo storico, del luogo, della cultura, fermo restando che se, da un lato, il bello esiste (solo) in relazione al giudizio dell’osservatore che ne fruisce, dall’altro, un’estetica radicalmente empirista rischierebbe, tuttavia, di distaccarci dall’essenza e dalla rilevanza dell’oggetto che stiamo osservando (la natura, l’essere umano, la musica, l’arte) cui si accorda o si nega detta qualità. Infine, questo breve excursus sul bello nel diritto non deve essere mal inteso ed utilizzato come superficiale legittimazione di un canone estetico attuale, ma ci serve a riflettere sui quei valori che fondano la nostra società e, laddove perseguiti, alimentano positività e benessere. La nostra Costituzione tutela il patrimonio culturale, più volte concettualizzato e identificato come il “bello artistico” o le “bellezze naturali” e, senza voler fare voli pindarici, ma percorrendo il solco della nostra tradizione costituzionale, associando l’art. 9 all’art. 32, baluardo della tutela della salute e del benessere fisico, non possiamo certo negare che perseguire la cura e la bellezza della nostra persona non abbia risvolti positivi per la salute interiore ed esteriore. Ricordiamo l’etimologia di bellezza: bellus “bello”, diminutivo di una forma antica di bonus “buono” – ci porta ad associare il bello percepito sensorialmente come qualcosa di sano e virtuoso. Bonus deriva dal più antico duonus, successiva trasformazione della d in b, la cui derivazione si attribuisce: alla radice sanscrita dve: felice; alla contrazione di divonus, a sua volta dalla radice sanscrita div: splendere, che è la stessa che dà origine alla parola Dio. Infatti, insieme al concetto di vero e di bene, il bello, fin dai tempi più antichi è ritenuto un valore supremo, che identifica la persona positivamente: καλὸς καὶ ἀγαθός (kalos kai agathos, bello e buono).

Damiano Fuschi è ricercatore post-doc di Diritto pubblico comparato e professore a contratto presso l’Università degli Studi di Pavia. Dottore di ricerca in diritto pubblico e visiting researcher presso l’Università della California di Los Angeles – UCLA